INTRODUZIONE
Molti di coloro che
vissero a Roma la prima giornata del Concilio pensarono spontaneamente, tornando
a casa dopo la grande fiaccolata della sera in piazza san Pietro, che la vita di
Papa Giovanni poteva considerarsi conclusa quel giorno. Conclusa, non finita.
Conclusa per ciò che riguardava il «servizio» che egli aveva
assunto, fin dal primo giorno, con tanta umiltà e tanta gioia. Da quella
sera non poteva cominciare che l'«umile gloria» che Roncalli, un
giorno ormai lontano - al momento della scelta del motto del Baronio per il
proprio stemma episcopale - aveva profetizzato a se stesso.
Molti pensarono
che tutto era finito, e non immaginarono che tutto stava cominciando. Persino
l'idea che ormai Papa Giovanni poteva anche andarsene non sembrava un pensiero
doloroso: era soltanto la convinzione che bastava quella giornata storica a
giustificare tutte le sorprese del «Papa di transizione».
Eppure,
Papa Giovanni sentiva - e forse sapeva - che mancava ancora qualcosa
all'efficacia del servizio che intendeva rendere a tutti gli uomini. Lo intuiva
vagamente, ma dopo pochi mesi, anzi dopo pochissime settimane, l'intuizione
sarebbe diventata certezza: occorreva rendere testimonianza alla pace, come, col
Concilio, si stava rendendo testimonianza alla verità e all'unità
della Chiesa. In ottobre si era aperto il Concilio; in ottobre sarebbe scoppiata
la crisi di Cuba, la più delicata e drammatica delle ore che
l'umanità veniva chiamata a vivere negli ultimi vent'anni. Una ora che
significava chiaramente il rischio di una guerra atomica, il cozzo fra Russia e
Stati Uniti, cioè la più radicale ed assurda guerra di tutti i
tempi.
Il Concilio avrebbe camminato, per quattro anni, su una strada
faticosa, ma irreversibile e sicura: i documenti che ne sarebbero scaturiti
sarebbero stati il frutto del pensiero della parte più viva della Chiesa.
Ma lo Spirito Santo chiamava Papa Giovanni - a pochi giorni di distanza dal
discorso rivoluzionario dell'apertura del Concilio - a donare al mondo un
documento personale che avrebbe fatto da regola ad ogni ingresso vero e concreto
sulla pace: la Pacem in terris.
Intanto i giorni immediatamente seguenti
all'apertura del Concilio furono come l'integrazione e la chiarificazione del
grande discorso: nelle parole rivolte dal Papa alle missioni diplomatiche, ai
giornalisti e ai rappresentanti dei «fratelli separati», Papa Giovanni
andò rivelando ulteriormente il proprio cuore, e velando dietro le parole
più semplici e spontanee i grandi temi e le inevitabili difficoltà
del Concilio.
Il 12 ottobre prese contatto con i membri del Corpo
Diplomatico.
In quel discorso, nella Cappella Sistina, commentò le
sue stesse parole d'inaugurazione del Vaticano II, con particolare riferimento
alla responsabilità dei potenti e dei grandi della terra nei confronti
della pace. «Tra uomini che non vorrebbero altri rapporti che quelli di
forza fisica - disse Papa Giovanni - la Chiesa ha il dovere di rivelare tutta
l'importanza e la efficacia della forza morale del cristianesimo, che è
un messaggio di verità integra, di giustizia e di carità... Per
questa pace la Chiesa si è impegnata: con la preghiera, con il rispetto
profondo che essa ha per i poveri, i malati, i vecchi, e con la diffusione del
suo insegnamento che è dottrina di amore fraterno, perché gli
uomini sono fratelli e - lo diciamo con animo commosso - tutti figli di uno
stesso Padre. Il Concilio contribuirà senza dubbio a preparare questo
nuovo clima e a far dileguare ogni possibilità di conflitto, specialmente
la guerra, questo flagello dei popoli che oggi vorrebbe dire la distruzione
dell'umanità».
Papa Giovanni sapeva di parlare ai potenti del
mondo, o ai loro rappresentanti. Lasciò da parte le circonlocuzioni, e fu
chiaro e accorato. Indicando il Giudizio Universale di Michelangelo - come
richiamo alle conseguenze di ogni responsabilità personale e sociale -
continuò: «Cari signori, davanti a noi splende in questa Cappella
Sistina il capolavoro di Michelangelo, il Giudizio finale, la cui gravità
fa pensare e riflettere. Sì, noi dovremo render conto a Dio, noi e tutti
coloro che portano la responsabilità del destino dei popoli. Sentano
tutti che dovranno un giorno rispondere delle loro azioni al Dio creatore, che
sarà altresì supremo giudice. La mano sulla coscienza, ascoltino
il grido d'angoscia che da ogni parte della terra, dai fanciulli innocenti ai
vecchi, dai singoli alle collettività, sale verso il cielo: pace, pace.
La preoccupazione del finale rendiconto faccia sì che nessuno trascuri
gli sforzi per raggiungere questo bene che è, sulla terra, il bene
superiore a tutti gli altri. Continuino ad incontrarsi a discutere, e giungano
ad accordi leali, generosi giusti. Siano pronti, inoltre, ai sacrifici necessari
per salvare la pace nel mondo. I popoli potranno allora lavorare in un clima di
serenità; le scoperte della scienza serviranno al progresso e
contribuiranno a rendere ognor più serena la dimora su questa terra, che
è già segnata da tanti altri inevitabili dolori».
«NON ABBIAMO DISCUSSO, MA CI SIAMO AMATI»
L'incontro coi rappresentanti dei «fratelli
separati» avvenne nel pomeriggio del 13 ottobre, nella Sala del Concistoro,
cioè nella sala in cui, ordinariamente, il Papa colloquia coi cardinali
ed annunzia le loro nomine. Un luogo scelto di proposito per dare importanza
agli ospiti che tanto gli stanno a cuore. Nella vita e nella condotta di Papa
Giovanni le piccole cose sono spesso involontarie, ma non per questo meno
ispirate, in quanto risultano il frutto di quella «sapienza del cuore»
che lo ha sempre guidato nel dare il primo posto alla carità.
Il
Papa sedeva su una semplice poltrona rossa, senza rilievo di gradini. Non era un
«trono» ma soltanto una «sedia», messa allo stesso livello
di quelle degli ospiti. Tutto aveva l'aria della ripresa di una consuetudine di
fraternità e di paternità scevra dagli aspetti esteriori della
solennità. Il Papa era apparso al mondo, due giorni prima, in tutto lo
splendore tradizionale della cornice pontificale: era il Vicario di Cristo, il
successore di Pietro. Ma ora, lì, nella Sala del Concistoro, non era che
il «fratello» di altri uomini uniti nella confessione fondamentale
della fede in Cristo. E il discorso che egli fece evitò, certo di
proposito, ogni impegno strettamente storico e teologico. Ci avrebbe pensato il
Concilio in un decorso che era completamente nelle mani di Dio, a chiarire e
riproporre le rispettive responsabilità. Egli offrì quel giorno
soprattutto se stesso, come garanzia che il cuore della Chiesa s'era aperto
anche esteriormente all'anelito dell'unità. Evitando i punti controversi
da secoli, che del resto in un breve accenno augurale non avrebbero potuto
essere presentati né con ottimismo astratto né con pessimismo
tradizionale, scelse ancora una volta la via più facile per far emergere
dall'anima degli ascoltatori tutto ciò che di positivo essa portava in
quel momento decisivo.
Ernesto Balducci, a proposito di quel discorso, e
dello spirito che lo animava, ha scritto: «Mai lo Spirito del Signore ci
è apparso, in questi anni, così straordinariamente delicato nei
suoi modi di entrare nella storia degli uomini e, appunto per questo,
così efficace: davvero egli è venuto fra noi con passi di colomba:
solo i cuori vigilanti lo hanno avvertito. Il valore soprannaturale di questa
semplicità - alla quale i più grandi teologi del futuro dovranno
essere grati - fu messo ben in rilievo da chi, per primo, lo sperimentò
in qualità di "fratello separato", cioè dal primate anglicano
Geoffrey Fisher». Egli disse: «Si potrà pensare che l'amicizia
non costa nulla e non cambia nulla. In verità, essa cambia tutto, e, alla
fine, è la cosa più preziosa che esista. È davvero un miracolo
che in così breve tempo il Papa abbia fatto tutto questo. Eppure, non
è un miracolo, giacché sulla vasta e pubblica scena sulla quale
era stato chiamato, fece soltanto quello che può esser fatto da qualunque
uomo che sia veramente dedicato al servizio di Cristo. La Sua dedizione non lo
aveva allontanato dai suoi fratelli cristiani, anzi lo aveva portato più
vicino ad essi. Ciò equivale a dire che aveva fede in tutti gli esseri
umani, e li amava con la giusta e semplice fede del cristiano. Siamo tutti Suoi
amici e Suoi debitori, e rendiamo lode a Dio nel ricordare la sua figura. Quel
grande movimento da lui iniziato continuerà. Nessuno sa dove ci
condurrà, ma tutti sappiamo, grazie alla nostra fede, come lo stesso
Pontefice sapeva, grazie alla Sua fede, che lo Spirito Santo, dai sentieri
oscuri del passato, ci sta conducendo per le regioni della luce».
Papa
Giovanni, guardando gli «i» - visibilmente commossi dall'incontro -
disse innanzi tutto che l'emozione che egli aveva provato la mattina
dell'inaugurazione del Concilio era dipesa anche dal fatto di veder loro in
quella tribuna, davanti all'altare di Pietro, in ascolto delle parole del suo
successore.
«In quell'ora provvidenziale e storica - egli disse -
badavo soprattutto a fare bene il mio dovere di quel momento, e cioè a
star raccolto, a pregare; a ringraziare il Signore. Ma lo sguardo di quando in
quando si volgeva verso tanti figli e fratelli. E quando si posò sul
vostro gruppo, su ciascuno di voi, trovai nella vostra presenza un motivo di
conforto». Non erano soltanto i cattolici, i fedeli innumerevoli, i
rappresentanti dei potenti della terra a confermare ed incoraggiare il Papa nel
grande momento: erano, in maniera determinante, anche loro, il segno, quasi il
«sacramento» di tutti i milioni di «fratelli separati» che
sentivano, su tutta la terra, lo stesso angoscioso problema della divisione e
nutrivano la grande speranza dell'unità.
Quel gruppo variopinto ed
eterogeneo, lassù nella tribuna, significava per Papa Giovanni, la
mattina del grande inizio, la giustificazione allo scopo più arduo ma
anche più legittimo del Vaticano II. Ora, lì, a tu per tu, non
c'era affatto bisogno di riaprire piaghe e ricordi dolorosi per tutti: doveva
bastare sapere di volersi bene, di essere legati sinceramente allo stesso
impegno, di camminare sul medesimo sentiero.
Bastò al Papa rievocare
gli anni d'Oriente, e quelli di Parigi, nei quali non aveva avuto meno contatti
«ecumenici» che durante i venti trascorsi in Bulgaria, in Turchia ed
in Grecia. «Come potrei dimenticare - egli disse - i dieci anni passati a
Sofia? E i dieci altri passati ad Atene e ad Istanbul? Furono vent'anni felici e
ben adoperati, nel corso dei quali ho fatto la conoscenza di molte
personalità venerabili e di giovani pieni di generosità. Li
consideravo con amicizia anche se la mia missione di rappresentante del Santo
Padre nel vicino Oriente non li riguardava direttamente».
Con
amicizia: il miracolo della profonda speranza ecumenica è pur nato da
questa intensità di amicizia, che ha sempre puntato sull'uomo prima che
su qualsiasi tipo di caratterizzazione religiosa e confessionale. Fisher ha
ragione ad affermare che «l'amicizia cambia tutto». Non è forse
una forma spesso sconosciuta della fede, e non trasporta anch'essa le
«montagne»?
«In seguito, a Parigi - continuava Papa Giovanni
- che è uno dei punti d'incontro del mondo - e che lo fu particolarmente
subito dopo l'ultima guerra - ho avuto numerosi contatti con dei cristiani
appartenenti a diverse denominazioni. Mai, che io mi ricordi, ci fu fra noi,
confusione nei principi, o contestazione sul piano della carità nel
lavoro comune che le circostanze ci imponevano per assistere coloro che
soffrivano. Non abbiamo parlamentato ma parlato; non abbiamo discusso, ma ci
siamo amati».
Nessun impegno, nessuna promessa: soltanto la certezza
della carità reciproca. Papa Giovanni dette, oltre tutto, in quel dialogo
con gli «osservatori» anche un esempio di equilibrio: La virtù
cristiana della pazienza non deve nuocere alla virtù della prudenza, che
è anch'essa fondamentale. Sì, lo ripeto: Benedetto il Signore per
ogni giorno. Per oggi dunque ci basti. La Chiesa cattolica è al lavoro,
ad un lavoro sereno e generoso; voi adempite al vostro compito di
«osservatori», con una attenzione sempre rinnovata e
«benevola»
Un incontro senza dubbio storico - il più
importante per tutte le confessioni cristiane dopo mille anni - non poteva
essere tenuto su modi più semplici e persuasivi. D'altronde, era il
Concilio che avrebbe dovuto confermarne il seme di carità e di
collaborazione reciproca. Papa Giovanni non volle dare né chiedere
più di quello che il momento esigeva e permetteva ad un tempo.
Nella
stessa mattina del 13 ottobre Papa Giovanni aveva ricevuto i giornalisti
accreditati presso il Concilio, nella Cappella Sistina. Anche a loro aveva
ricordato, non senza amabilità, la grande responsabilità d'essere
informatori e educatori dell'opinione pubblica di fronte ad un fatto singolare e
- per molti aspetti - senza precedenti come quello del Concilio.
Si
trattava - almeno per quella prima sessione - di conciliare due esigenze
praticamente inconciliabili: il «segreto» che verte sugli interventi
conciliati, e i diritti dell'opinione pubblica di fronte ad un fenomeno
straordinario come quello del Concilio? Come arrivare alla sintesi, come operare
la conciliazione? Papa Giovanni si rendeva conto benissimo delle
difficoltà, e tutto faceva intuire, dal contesto delle sue parole, che
propendeva più per i diritti dell'opinione pubblica che per il
«segreto» delle assise conciliari. Ma anche qui non volle forzare
nulla, e si limitò a stimolare nei giornalisti presenti il senso profondo
della loro responsabilità professionale e morale.
Li mise in guardia
soprattutto contro le esigenze superficiali ed ambigue di certa clientela,
più avida di «colore» che di verità: «Senza dubbio
grande è la tentazione d'indulgere al gusto di una certa clientela di
essere più solleciti della rapidità che dell'esattezza più
interessati dal "sensazionale" come si dice, che da quanto è
oggettivamente vero. Si conferisce allora un risalto esagerato ad un particolare
puramente esteriore e si dissolve la realtà profonda nella presentazione
di un fatto, nell'analisi di una situazione, di un'opinione, di una convinzione.
Anche questo, voi lo comprendete, è una maniera d'offuscare la
verità, e se è grave in ogni campo, quanto più
allorché si tratta di quello che di più sacro esiste al mondo: il
campo della religione, dei rapporti dell'anima con Dio!».
Il Papa
volle ricordare ai giornalisti che il Concilio «è soprattutto un
fatto religioso», e chiese la loro collaborazione perché questo suo
aspetto fosse messo dovutamente «in evidenza». Gli premeva far capire
che in Concilio non esistevano «macchinazioni politiche». Se i
giornalisti fossero stati obiettivi, «molte prevenzioni» sarebbero
«cadute». Anche i giornalisti, come lui, il Papa erano a loro modo
«al servizio della verità». E offrì lui stesso la
definizione ideale di sé, la più semplicemente e realisticamente
combaciante, secondo lui, con la realtà: «Ci basterà che voi
possiate scrivere, come unico e vero titolo di onore per noi: era un sacerdote
davanti a Dio e davanti ai popoli, amico sicuro e sincero di tutte le
nazioni».
IN DIFESA DELLA LIBERTÀ DEL CONCILIO
Il 13 ottobre, nell'uscire dall'udienza concessa
agli «osservatori», il card. Bea esclamava:
«È stato un
miracolo, è stato un miracolo». L'anziano porporato conosceva di
persona le difficoltà delle situazioni la delicatezza dei contatti, la
precarietà di certe aperture, da una parte a dell'altra; e si rendeva
conto che ancora una volta, d'intuito, come per una intima ispirazione, Papa
Giovanni aveva trovato il modo più giusto per presentarsi e per offrire
il volto e le intenzioni della Chiesa.
Se di «miracolo» si
trattava, esso si sarebbe rinnovato più d'una volta. Ora non era
più Papa Giovanni che personalmente «inventava» - con una
fantasia che coincideva visibilmente con la grazia - le parole e i modi di certi
incontri. Ora era chiaro che il Concilio integrava Papa Giovanni, e che Papa
Giovanni integrava e stimolava il Concilio. La sintonia intima fra il Papa e il
Concilio non poteva essere più stimolante e profonda.
Il 21 novembre
toccò poi proprio a Papa Giovanni dare la prova di superare situazioni
inevitabilmente frenanti, e restituire al Concilio tutta la sua libertà.
Si vide prima di tutto che il materiale e la struttura che si erano presentati
alle commissioni preparatorie, non avevano necessariamente potuto acquistare la
chiarezza, l'essenzialità, la profondità necessarie per essere
sostanza viva di un dibattito decisivo come quello di un Concilio.
Erano
stati preparati sessanta schemi, ma la maggior parte di essi erano usciti dalla
cultura dall'esperienza, dalla concezione di teologi prevalentemente italiani, o
legati alla curia romana; solo una minoranza di teologi stranieri era stata
inserita nella compagine organizzativa del Concilio. In più, anche dopo
l'esempio mortificante del Sinodo di Roma, il regolamento conciliare offriva non
poche lacune, e punti morti in cui sarebbe stato difficile, a termini di
procedura burocratica, dare ragione effettivamente allo «spirito» del
Concilio contro la «lettera».
Questo si vide chiaro durante la
discussione sullo schema riguardante la Rivelazione, e comprendente il problema
delicatissimo della Bibbia e della sua importanza e interpretazione nella vita
della Chiesa. L'ecumenismo accettato in partenza esigeva di avere idee chiare e
metodi adatti nei confronti dei protestanti specialmente dal punto di vista del
discorso sulla Sacra Scrittura. Eppure - secondo una terminologia cara alla
teologia più tradizionale, ed ignara dei traguardi raggiunti dalle
correnti più coraggiose non tanto in campo protestante quanto in campo
cattolico - si dette per titolo allo schema De fontibus Revelationis. Si
parlava, cioè, delle «due» classiche «fonti», la
Bibbia e la Tradizione: distinzione che non poteva non essere pietra di scandalo
fra cattolici e protestanti.
Giunti alla discussione sullo schema, i
più coraggiosi fra i padri si resero conto che non era imprudente
soltanto il titolo dello schema, ma soprattutto il contenuto, il modo con cui
veniva presentata la delicatissima questione. Il minimo che poteva succedere era
che gli «osservatori» protestanti si domandassero a che scopo erano
stati invitati. Il dibattito giunse subito ad un punto morto, e la
«maggioranza», in forza delle insufficienze del regolamento
conciliare, rischiò di non poter avere legittimamente ragione nei
confronti della minoranza. L'impasse era grave; la stampa dava già segno
di voler puntare sullo «scandalo», quando Papa Giovanni - informatosi
sin nei minimi particolari della questione - decise il passo storico:
ordinò che lo schema sulla Rivelazione venisse aggiornato e
rifuso.
Il rapporto coi protestanti, se la minoranza avesse avuto ragione
nei confronti della maggioranza coraggiosa sarebbe stato notevolmente
compromesso, e ci sarebbe voluto ancora molto tempo, prima che le condizioni
ideali che erano ancora vive si potessero ripetere.
In una società
per sua natura non democratica, nelle strutture, Papa Giovanni, con
quell'intervento, portava il massimo possibile della «democrazia». Ed
era lui stesso, il Pontefice anche personalmente infallibile, il Vicario di
Cristo, a difendere la libertà e la democraticità della grande
assemblea. Il Concilio evitò in tal modo di cadere nella prima
involuzione che poteva soffocarne, addirittura a termine di legge, la
vitalità e la profeticità.
Dopo quell'intervento tutti
compresero che il Concilio era salvo, che il suo cammino non si sarebbe
arrestato, che qualsiasi situazione analoga avrebbe trovato nel Pontefice il
difensore della libertà per mezzo dell'autorità. I protestanti
respirarono e gli ortodossi si resero conto, ancora una volta, di come poteva e
doveva essere esercitato quel primato che era stato la causa millenaria della
grande discordia. Oscar Cullmann, scriveva parole di commozione e d'ammirazione,
di fronte alla libertà con cui il Concilio procedeva, e prendeva atto del
fatto che i protestanti non erano considerati solo «osservatori»
ufficiali, ma veramente fratelli nella casa del Padre: «Quando ogni mattina
vedo noi occupare i nostri posti, quasi posti d'onore, di fronte ai cardinali;
quando il Segretario del Concilio pronuncia ogni mattina il suo exeant omnes
mentre noi possiamo rimanere ai nostri posti, mi meraviglio sempre di nuovo del
modo e della maniera con cui realmente siamo accolti in questo Concilio...
Esternamente siamo osservatori passivi, ma internamente viviamo questi atti con
i nostri fratelli cattolici».
IL «SÌ» DI MOSCA
Fra gli «osservatori» mancavano il
giorno dell'inaugurazione del Concilio, i rappresentanti del Patriarcato di
Mosca. Le trattative e i sondaggi per ottenere la presenza dei testimoni di una
Chiesa e di un popolo cristiano particolarmente cari al cuore del Papa e
soprattutto particolarmente interessati allo sviluppo del Concilio erano stati
lunghi e delicati. Ad un certo punto si era creduto che la cosa fosse
impossibile. Era chiaro che i rappresentanti di Mosca non avrebbero potuto
partecipare ad un avvenimento tanto importante senza il benestare del governo
comunista, cioè senza l'approvazione più o meno diretta di
Krusciov. La loro presenza era significativa anche per questo: avrebbe
significato un giudizio sostanzialmente positivo del capo russo.
Krusciov
aveva dimostrato simpatia e solidarietà per Papa Giovanni «uomo di
pace» - e più ancora le avrebbe dimostrate in seguito - ma occorreva
sapere se fuori delle parole cortesi era veramente disposto a concedere la
libertà di contatti anche semplicemente religiosi fra Roma e
Mosca.
La notizia del "sì" di Mosca si propagò fulminea lo
stesso 11 ottobre.
Dal 27 settembre al 2 ottobre mons. Willebrands,
segretario del card. Bea, era stato in missione esplorativa a Mosca. La Chiesa
russa aveva favorevolmente reagito all'annunzio della convocazione del Concilio
e all'intenzione di Papa Giovanni di voler iniziare i contatti per la riunione
delle Chiese cristiane. Ma quanto all'invio di «osservatori» ufficiali
veri e propri la cosa non si presentava facile, almeno in un primo tempo.
Accettando l'invito la Chiesa di Mosca, e avanzandolo la Chiesa di Roma,
ponevano praticamente fine alla lunga discordia anche esteriore, che per secoli
era stata sempre violenta da ambedue le parti.
Cominciava il processo di
riavvicinamento. Gli uomini incaricati di venire a Roma erano il professor
Vitali Borovoi e l'archimandrita Vladimir Kotliarov. Fu quel giorno, davanti a
quella notizia, che molti sperarono in un fatto ancora più decisivo, da
parte di Mosca: una visita di Krusciov al Papa. Krusciov avrebbe dovuto
restituire all'Italia la visita fatta da Fanfani a Mosca: perché, in
quell'occasione, non sarebbe stato possibile osare ciò che molti temevano
e molti speravano? Sarebbe scoccata davvero l'«ora della
verità», sia per i comunisti coerenti che per gli autentici
cattolici.
Nessuno poteva pensare, quella mattina, che entro il 1963 sia
Papa Giovanni che Krusciov sarebbero scomparsi dalla scena, il Papa morendo e
Krusciov perdendo il potere. Ma il seme di una grande speranza era stato
gettato, e non sarebbe importato molto in che modo avrebbe germinato, e quando.
Il Concilio dava a tutti la forza - uno dei suoi primi e più profondi
doni - di guardare ormai in prospettive sempre più vaste, a traguardi
sino a pochi anni prima addirittura impensabili.
Mancava al Concilio un
rappresentante della Chiesa d'Albania. Di là nessun vescovo aveva potuto
muoversi. Ed anche questo era un segno di quanto si sarebbe andato delineando in
seguito: lo «scisma» che avrebbe colpito violentemente la compattezza
comunista proprio mentre Krusciov e la Russia dimostravano di non poter restare
indifferenti al vento ecumenico di Roma, anche se si trattava di un ecumenismo
prettamente religioso.
Il realismo cristiano di Papa Giovanni ebbe subito
il premio che meritava, con la notizia dell'arrivo degli «osservatori»
di Mosca. Egli aveva cercato sempre di preparare le cose nel migliore dei modi;
e Dio rispondeva alla sfida del suo confidente coraggio. Il 30 aprile del 1960
egli aveva detto, agli allievi del Russicum: «Conviene preparare bene tutte
le cose, con grandissima carità e perfetta conoscenza dei popoli; e saper
tenere in considerazione anche i figli di un'antichissima tradizione, che hanno
attualmente bisogno di essere compresi e attirati da prove di fraternità,
di dolcezza e di pace. Non c'è dubbio che il Signore interverrà
con la sua grazia e ci darà grandi consolazioni, anche se altri, nel
futuro, ne gusterà i risultati fecondi».
Così
l'ecumenismo personale del Papa stimolava e giustificava quello del Concilio, e
viceversa. Il mondo prendeva atto sempre più profondamente di questa
straordinaria novità; si sentiva reinserito nella paternità di Dio
e nella maternità della Chiesa, da cui non era mai stato escluso, ma di
cui non sempre gli erano rimasti chiari i caratteri e l'evidenza.
I CAPPELLI DEI CUOCHI
Per dare la misura di ciò che il mondo
andava percependo di giorno in giorno, basterà citare un gustoso ricordo
personale dello scrittore Luigi Santucci, apparso su L'Italia del 25 novembre
1962: «La misura della grandezza di Giovanni XXIII - dirò della sua
potenza ecumenica - l'ho avuta all'inizio dello scorso ottobre, in due episodi
pittoreschi e meditabili nel loro contrasto.
«Il primo è quello
dei cuochi. Nella cucina di un albergo ho visto volare in aria i bianchi
copricapi di quei cucinieri. Tornavano ai loro fornelli dopo aver sbirciato a un
televisore la ripresa del viaggio di Papa Giovanni a Loreto e Assisi. Il chef
diede improvvisamente l'esempio buttando al soffitto il suo cappello, e subito i
colleghi lo imitarono, senza che nessuno dicesse niente. E non ricordo un altro
spettacolo che meglio mi abbia espresso il senso irrazionale e pur saggio della
gioia, come quello svolare di berretti medioevali nell'anonima cucina di un
grande hotel.
«Il secondo è quello del mio amico B. dal quale,
dopo l'allocuzione del Papa all'apertura del Concilio, ho ricevuto una lettera
che dice testualmente: "Sono pazzo, pazzo, pazzo del discorso di Giovanni
XXIII". Il mio amico B. è l'uomo più intelligente che io conosco,
di più raffinata e incontentabile cultura, di problematica ardita e
anticonformista. Anche l'amico B., dunque buttò in aria il berretto: e il
suo fu il tòcco accademico e severo della sapienza che si mescolò
alla danza dei copricapi plebei e un poco fiabeschi degli dei artigiani della
casseruola.
«Papa ecumenico! Papa che con meraviglia di noi stessi sa
farci uscire da un nostro vecchio broncio e darci rimescolii infantili,
strapparci gesti di fervore, e di mattana che smentiscono la nostra scettica e
guardinga rispettabilità. Papa che, dopo secoli di Pontefici anche
umanissimi e umilissimi, tutti li supera, credo, nell'appellarsi alla nostra
parte più viva e vulnerabile: l'intimità, il senso privato e
domestico che ogni uomo - dall'imperatore nella reggia al brigante nella
spelonca - custodisce dentro di sé.
«Chi di noi, in questi
quattro anni di suo regno, non ha sognato che Papa Giovanni possa suonare al
campanello della propria casa, sedersi nella poltrona buona, mescolare lo
zucchero nella tazzina del caffè? Nella favola vera di Papa Roncalli
c'è posto anche per questa ipotesi. Dopo che i carcerati di Regina Coeli
si sono pigiati attorno alla sua veste bianca, e seminaristi e corrigendi,
vecchi amici d'infanzia in talare o doppiopetto borghese l'hanno visto
stagliarsi inatteso nel riquadro della loro porta, a ciascuno di noi -
pensionato delle ferrovie, o vedova solitaria, me che scrivo e voi che leggete -
è lecito pensare: chissà? perché non anche da me,
perché non qui?...
«Davvero nessuno ha saputo come Giovanni
XXIII - pur prescindendo dalla grandezza del suo ministero e dall'audacia delle
sue iniziative di Sommo Pontefice - farsi ospite. Ospite potenziale non solo del
nostro cuore, ma delle nostre case. Giovanni XXIII è un Papa che si
armonizza ineffabilmente coi nostri arredi domestici come coi nostri pensieri
più confidenziali».
È stato appunto questo un aspetto del suo
«segreto»: quello di appartenere personalmente a ciascuno, e di
garantire, col suo fascino personale, la pienezza delle sue intuizioni
pastorali, la forza del rinnovamento impresso alla Chiesa e alla storia
religiosa del nostro tempo. Nessuno ignora che ci furono anche reazioni
estremamente negative, violentissime, all'indirizzo da lui offerto al Concilio
col discorso d'inaugurazione. Ma anche una reazione del genere non poteva non
essere prevista: faceva parte di quel coincidere del Papa - d'ogni Papa - con
Cristo come «segno di contraddizione» prima di tutto per i propri
discepoli e seguaci.
Se Papa Giovanni non avesse incontrato alcune reazioni
violente, opposizioni proporzionate alla sua intuizione e al suo coraggio,
avremmo diritto a dubitare di lui, della sua opera, nell'ambito di una Chiesa
che vive all'ombra e nel mistero quotidiano della croce.
«ARRIVEDERCI FRA NOVE MESI»
Uno dei problemi di fondo che trovò
d'accordo gli uomini più vivi della Chiesa fu la questione della riforma
liturgica. Un secolo prima Antonio Rosmini, ne Le Cinque Piaghe della Chiesa,
aveva auspicato, fra l'altro, un maggiore contatto fra popolo e clero nel
pubblico culto. Tre secoli fa, a Pistoia, Scipione de' Ricci, un vescovo di
larghe vedute, aveva sperimentato l'inserimento del volgare al posto del latino
nella preghiera pubblica. Scipione de' Ricci era stato condannato, e Antonio
Rosmini aveva visto messa all'Indice la propria opera (quell'opera che oggi esce
in edizione integrale presso una grande casa editrice cattolica italiana, quasi
a significare, anche in questo «il nuovo ordine di rapporti umani»
riconosciuto come legittimo da Papa Giovanni nell'inaugurazione del
Concilio).
La riforma liturgica fu decisa nella prima sessione conciliare.
Il Vaticano II iniziava la «riforma cattolica» riportando il popolo a
diretto contatto con Dio nell'assemblea liturgica. Papa Giovanni - che si era
battuto, quasi trent'anni prima, in Turchia, perché i fedeli pregassero
nella propria lingua e comprendessero ciò che dicevano a Dio -
riscoprendo oltre tutto gli immensi tesori della Sacra Scrittura e della
letteratura dei Padri della Chiesa - fu felice di questo traguardo iniziale.
Egli comprendeva che tutto stava nel cominciare nell'avere il giusto coraggio,
da unire alla necessaria prudenza.
L'8 dicembre festa dell'Immacolata, il
Papa scese in san Pietro per la solenne chiusura della prima sessione. Era
più emaciato del solito, anche se cercava di velare con un grande sorriso
le sofferenze che già s'erano manifestate nel suo fisico.
«I
vostri dibattiti provvidenziali - disse ai padri conciliari - hanno fatto
risaltare la verità e hanno mostrato agli occhi del mondo la santa
libertà dei figli di Dio». Non ci poteva essere maniera più
delicata di accennare ai violenti dissensi che si erano salutarmente verificati
durante la discussione conciliare, e che avevano richiesto come si è
visto, anche il suo intervento diretto.
Nel discorso pubblico dell'8 diede
conto a tutti, cristiani e no, del significato della prima sessione: «La
prima sessione è stata come un'introduzione lenta e solenne alla grande
opera del Concilio, un avvio volenteroso ad entrare nel cuore e nella sostanza
dei disegni voluti dal Signore. Era necessario che i fratelli venuti da lontano
e tutti riuniti attorno allo stesso focolare riprendessero i contatti con
maggiore reciproca conoscenza: bisognava che gli occhi si fissassero negli
occhi, per avvertire il palpito dei cuori fraterni: occorreva esporre le singole
esperienze per uno scambio meditato e fecondissimo degli apporti pastorali,
espressione dei più diversi climi e ambienti di
apostolato».
Non mancò di alludere serenamente, alle
«comprensibili e trepide divergenze»: «In un quadro così
vasto si comprende anche come ci sia voluto qualche giorno per giungere a
un'intesa su ciò che, salva charitate, era motivo di comprensibili e
trepide divergenze; anche questo ha la sua spiegazione provvidenziale per il
risalto della verità, e ha dimostrato in faccia al mondo la santa
libertà dei figli di Dio, quale si trova nella
Chiesa».
«Arrivederci fra nove mesi», disse con un sorriso
ai padri conciliari. Ma chi sa se lui stesso credette alla possibilità di
ritrovarsi a quell'appuntamento. L'importante era comunque di lasciar andare
avanti la Chiesa. In tutto, non c'era che da compiere la volontà di Dio.
Un «pilastro», per la Chiesa del futuro, lo aveva gettato. Un altro -
la Pacem in terris - si stava già profilando nel suo cuore e nella sua
mente. L'«arco» lo avrebbe compiuto il successore.
Il 2 dicembre,
nel consueto saluto dalla finestra, volle rassicurare i fedeli sulla propria
salute: «La buona salute, che minacciava per un momento di allontanarsi,
sta per tornare anzi torna».
Da quel momento era soltanto nelle mani
di Dio. Il 25 ottobre era scoppiata la crisi di Cuba, ed egli aveva dovuto, come
vedremo, ricordare che «la pace e la casa di tutti gli
uomini».
Il 30 dicembre il settimanale americano Time lo riconosceva
«uomo dell'anno». Era dal 1927 che un tale riconoscimento non toccava
ad un ecclesiastico. Ma l'indicazione della rivista americana non era che un
segno di ciò che Papa Giovanni era già, per quasi tutti gli
uomini: l'uomo più umano della nostra epoca.